Nel sistema vigente opera il principio che il titolo esecutivo, quale condizione necessaria dell’azione esecutiva, deve esistere già nel momento in cui questa è minacciata con la notificazione dell’atto di precetto, che non si può formare successivamente all’inizio del processo esecutivo e che deve permanere fino alla conclusione di questo.
Questo principio, che sta a fondamento dei poteri doveri del giudice dell’esecuzione, il quale è tenuto alla verifica di cui sopra all’inizio e per tutto il corso del processo esecutivo, incide anche sui poteri del giudice dell’opposizione all’esecuzione, relativamente a cui è possibile vedere questa guida sul sito Dirittofacile.net. Infatti, quando è contestato il diritto di procedere ad esecuzione, il giudice dell’opposizione deve verificare non solo l’esistenza originaria ma anche la persistenza del titolo esecutivo, visto che la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo determina l’illegittimità, con efficacia ex tunc, dell’esecuzione, in atto ovvero anche soltanto minacciata.
In materia di titolo esecutivo di formazione giudiziale, specificamente nei rapporti tra sentenza di primo grado e sentenza d’appello, si attribuisce alla sentenza d’appello, salvo i casi di inammissibilità, improponibilità ed improcedibilità dell’appello (e, quindi, quelli in cui l’appello sia definito in rito e non sia esaminato nel merito con la realizzazione dell’effetto devolutivo di gravame sul merito), l’efficacia di sostituire quella di primo grado, tanto nel caso di riforma che in quello di conferma di essa.
Ne deriva che, se, al di fuori delle indicate pronunce di definizione in rito dell’appello, si vuole iniziare l’esecuzione dopo la sentenza di conferma di quella di primo grado già esecutiva, occorre notificare come titolo esecutivo la sentenza di appello e, prima ancora, nell’intimare il precetto si deve evocare come titolo giustificativo della pretesa esecutiva la sentenza d’appello in quanto confermativa di quella di primo grado.
Il principio non subisce una vera e propria eccezione nemmeno nel caso in cui l’esecuzione sia stata iniziata in forza della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva e, nel corso del processo esecutivo, sopravvenga la sentenza d’appello, che la confermi, in tutto ovvero in parte. Si ha, in tale eventualità, il fenomeno che parte della dottrina ha definito di trasformazione del titolo esecutivo nel corso del processo esecutivo e che il codice di rito espressamente disciplina nell’ipotesi analoga dell’accoglimento parziale dell’opposizione a decreto ingiuntivo: in entrambi i casi, l’esecuzione iniziata prosegue per conseguire in via esecutiva il credito nei limiti in cui questo è stato riconosciuto con la sentenza di riforma in grado d’appello ovvero con la sentenza di accoglimento soltanto parziale dell’opposizione a decreto ingiuntivo (arg. ex art. 653 c.p.c.).
Sia nell’uno che nell’altro caso si ha che la sentenza d’appello e la sentenza conclusiva del giudizio di opposizione si sostituiscono rispettivamente alla sentenza di primo grado ed al decreto ingiuntivo, anche come titolo esecutivo. Soltanto che la norma dell’art. 653 c.p.c., comma 2, sebbene dettata in materia di opposizione a decreto ingiuntivo, costituisce espressione di un principio generale valido per tutte le ipotesi in cui un provvedimento giurisdizionale provvisoriamente esecutivo, posto in esecuzione, venga modificato solo quantitativamente da un successivo provvedimento anch’esso esecutivo: in applicazione di tale principio, iniziata l’esecuzione in base a sentenza di primo grado (in passato, munita di clausola di provvisoria esecuzione, oggi), provvisoriamente esecutiva, ove sopravvenga sentenza di appello che riformi la precedente decisione in senso soltanto quantitativo, il processo esecutivo non resta caducato, ma prosegue senza soluzione di continuità, nei limiti fissati dal nuovo titolo (con persistente efficacia, entro gli stessi, degli atti anteriormente compiuti) ove si tratti di modifica in diminuzione, o nei limiti del titolo originario qualora la modifica sia in aumento; in questo caso il creditore, per ampliare l’oggetto della procedura già intrapresa, deve fare intervento, per la parte; residuale, in base al nuovo titolo esecutivo costituito dalla sentenza di appello.
Si tratta di prendere atto che il titolo esecutivo originario ha subito una modificazione per la sopravvenienza di altro titolo esecutivo di formazione giudiziale, ma, non essendo questo totalmente incompatibile col primo, consente la prosecuzione del processo esecutivo in corso, sia pure nei limiti in cui i due titoli siano “sovrapponibili”.
Si verifica, in questa ultima eventualità, un’ipotesi di combinazione tra i due titoli esecutivi, analoga a quella, che una parte della dottrina ascrive alla categoria del titolo esecutivo complesso, che si ha quando questo consta della combinazione di due documenti. L’esempio fatto è, appunto, quello della combinazione della sentenza di condanna di primo grado e della sentenza di conferma di secondo grado, che, non riproducendo la condanna già pronunciata, debba essere integrata con la prima. Tuttavia, si tratta di fattispecie che, non incidendo sull’effetto devolutivo che ha avuto l’appello concluso con la sentenza di rigetto nel merito, non sottrae a quest’ultima la qualificazione di titolo esecutivo; la sentenza d’appello, ove l’esecuzione non sia ancora iniziata, dovrà essere notificata al debitore