Oggi parliamo di Sharing economy.
Cos’è? Da dove nasce? E quanto ne sappiamo in Italia?
Come sempre, per chiarirci le idee, partiamo dalle tre caratteristiche che identificano la sharing economy:
Condivisione
Relazione: la condivisione avviene tra persone (o organizzazioni), a prescindere da logiche professionali e senza i ruoli di finanziatore, produttore e consumatore.
Presenza di una piattaforma tecnologica, che supporta le relazioni digitali
Potremmo dire, quindi, che si tratta di un modello di “economia condivisa”.
Le origini della sharing economy
L’idea della condivisione è nata con la crisi finanziaria internazionale e si è allargata a settori sempre nuovi nella logica del continuare a risparmiare, condividendo tempo, servizi e prodotti.
Insomma, tutto quello che è possibile.
Un dettaglio che vale la pena sottolineare è, inoltre, il progressivo aumento del numero di municipalità disposte ad accettare queste transazioni come “legali” in quanto coordinate da freelance.
In California, per esempio, i privati possono improvvisarsi proprietari di auto da usare in condivisione da più persone che devono percorrere più o meno lo stesso tragitto senza infrangere nessuna legge. ( blabla e Uber vi ricordano qualcosa? )
In Australia, invece, le mamme possono prendersi un patentino per diventare “babysitter di quartiere”. Iniziative curiose e interessanti, che rendono la condivisione una quotidianità e che possono, nel lungo periodo far sì che le attività dei freelance della condivisione vengano regolamentate anche in altri settori.
L’economia collaborativa in Italia era nata già nel 2000, seppur in ritardo rispetto all’estero dove si era già assistito alla comparsa di piattaforme come Ebay. Il maggiore sviluppo si registra, come già anticipato in precedenza, nel 2009 a seguito sia della crisi, sia dello sviluppo delle tecnologie digitali e di social networks. Buona parte delle piattaforme italiane sono nate fra il 2013 e il 2014, maggiormente localizzate al Nord (qui hanno sede il 70% delle piattaforme) con il monopolio della Lombardia, seguita dal Veneto e dal Piemonte. La percentuale cala al Centro e nelle Isole (secondo i dati 2015 siamo attorno rispettivamente al 18% e al 12%).
La ricerca di Katz e Krueger: quanto cresce la sharing economy?
La crescita della sharing economy sta ponendo interessanti questioni. Innanzitutto, ci si può chiedere quanto questo modello sia legato alla crisi oppure risponda a un ripensamento più strutturale dei rapporti tra economia e società. Andiamo a scoprirne di più.
A marzo 2016, è stato pubblicato un lavoro di ricerca su questi temi condotto da due noti accademici, Lawrence Katz di Harvard e Alan Krueger di Princeton.
La ricerca è stata resa nota nella serie working papers del National Bureau of Economic Research.
L’obiettivo del lavoro di Katz e Krueger è stato di testimoniare il cambiamento delle modalità alternative del lavoro tra il 1995 e il 2015 negli Stati Uniti.
A questo scopo, gli autori hanno condotto fino a novembre 2015, una serie di interviste, identificando come lavoratori impegnati in attività erogate in forme alternative di lavoro:
-lavoratori che accedono a lavori temporanei attraverso agenzie per il lavoro temporaneo
-lavoratori su chiamata
-lavoratori a contratto
-lavoratori indipendenti o freelance
Tale gruppo di lavoratori equivaleva al 10,1% della forza lavoro occupata nel febbraio 2005 e per il 15,8% verso la fine del 2015. Per semplificare: nel 2005 essi erano 1 su 10, dopo soli dieci anni erano 1 su 6.
Come spiegarsi questa crescita così accentuata?
Che sia dovuta alla Grande Recessione generata dalla crisi del credito del 2007-2008? Che questa crisi abbia indotto un mutamento strutturale del mercato del lavoro?
Questo risultato, insomma, rafforza l’ipotesi che non sia stata tanto, o principalmente, la tecnologia a produrre un aumento tanto marcato dei lavoratori ‘atipici’ negli Stati Uniti, quanto l’estensione e la gravità della crisi.
Ci troviamo, dunque, davanti ad una trasformazione secolare del modo di funzionare del mercato del lavoro?
Se è improbabile, dunque, che la sharing economy sia in grado di sostituire i modelli tradizionali, ci si può aspettare che le piattaforme di condivisione delle risorse possano rispondere a bisogni e desideri finora latenti e, aspetto più interessante, favorire l’innovazione dei modelli esistenti, sia profit che non profit.